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LEON
(LÉON)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 aprile 1995
 
di Luc Besson, con Jean Reno, Gary Oldman, Natalie Portman, Danny Aiello (Francia - Stati Uniti, 1994)
 
"Storia di un killer dal presunto cuore d'oro (elimina di tutto, ma non donne e bambini), adotta adolescente sexy senza finire come si pensi.

"Storia", in un film di Besson, è un termine di comodo: che faccia parte della tendenza "iperviolenza urbana" (in definitiva la migliore, quella di LE DERNIER COMBAT, SUBWAY, NIKITA), per non dire di quella perdiamoci nell'Azzurro (IL GRANDE BLU, ATLANTIS), il suo modo di far cinema è del tutto allergico a delle nozioni del genere racconto, progressione drammatica, psicologia dei personaggi, dialoghi rivelatori. Meglio rivolgersi altrove: salvo che, invecchiando talvolta s'impara. E, si direbbe da questo suo LEON girato negli USA alla maniera anche questa presunta degli USA, ci si fa pure furbi: aggirando l'ostacolo. Cosi, LEON è un film che fa a meno dei concetti di cui sopra. È possibile? Si, se si fa un film di referenze, di segni quasi astratti comunque estranei all'idea di credibilità, di logica, di spiegazione. Se si fa quel cinema che nei casi migliori (Tarantino, Lynch, ma pure Wenders prima di loro) si può definire postmoderno.

Se si può fare a meno di certe cose, altre bisogna a questo punto riuscirle: e Besson sa filmare (certo, a modo suo, e cioè' costantemente sopra le righe, cercando l'effetto più che il rinvio di questo) un ambiente, dei colori, dei suoni o delle musiche. Sa scegliere gli attori (lo stralunato, suo diletto Jean Reno, la rivelazione Natalie Portman, fragile e sensuale grazie al viso sensuale sul corpo da bambina, lo snodato, perverso e corrotto capo degli Stup, Gary Oldman, il mafioso dolciastro Danny Aiello), appropriarsi dell'atmosfera delle situazioni, valorizzare (fin troppo) la dinamica di una sequenza, l'impatto di un'inquadratura.

LEON diventa allora un film dalla incontrollabile golosità cinefilica: al tempo stesso esaltante (il che spiega il suo successo presso un pubblico giovanile) e frustrante (vedi la ferocia di una parte della critica nei confronti di un regista perlomeno talentuoso). E nel quale occorre lasciarsi andare per gustarne il piacere di filmare, piuttosto che accanirsi ad evidenziarne il calcolo: divertirsi, più che irritarsi, nel ritrovarsi fra le pieghe della fotografia brillante di Thierry Arbogast il tema cassavetiano di GLORIA (il vicino che accoglie controvoglia il piccolo della famiglia annientata), godardiano di PIERROT LE FOU (l'esplosione poetico-scanzonata finale), kubrickiano di ARANCIA MECCANICA (la musica e la mimica dislocata associata ai killers), melvilliano di IL SAMURAI (la pianta d'appartemento al posto del canarino), ed in genere quello del Sergio Leone che si appropria - certo, con altre motivazioni- del mitico universo referenziale americano.

In questo caso la bulimia estetica di Besson si farà creativa, la sua ambizione un po' fatua, generosa: e LEON un film più che piacevole, in un panorama di calcolini lagnosi eiaculati precocemente dai soliti computer dei produttori."


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